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Aids, una terapia permette solo sei iniezioni all’anno

Infettivologia Redazione DottNet | 01/12/2022 15:23

Una possibilità, questa, accessibile solo al 50 per cento o anche meno dei pazienti

Le terapie contro l'Aids fanno grandi passi avanti: se prima una persona sieropositiva era costretta ad assumere quotidianamente oltre una decina di farmaci, poi diventati 2-3, oggi bastano solo 6 iniezioni l’anno. In pratica consistono nell’iniezione ogni due mesi di un farmaco che contiene due principi attivi che inibiscono alcune funzioni del virus Hiv, un inibitore dell’integrasi e un inibitore della trascriptasi inversa. Una possibilità, questa, accessibile solo al 50 per cento o anche meno dei pazienti. Più precisamente a coloro che non abbiano registrato fallimenti nelle precedenti terapie, che abbiano contratto un’infezione da Hiv che non presenti resistenze ai farmaci long-acting o che non siano risultati positivi da troppo poco tempo. Ma si tratta comunque di un risultato molto positivo, soprattutto visto che probabilmente, fra non molto tempo, le iniezioni potrebbero alla fine ridursi anche a una ogni 6 mesi.

Bene, dunque, per le terapie, meno per la diffusione: secondo le Nazioni Unite, nel 2021 ben 38,4 milioni di persone nel mondo sono risultate sieropositive, 650mila sono morte per malattie legate all’Aids e 1,5 milioni sono le persone contagiate di recente. “L’Hiv rimane un importante problema di salute pubblica che colpisce più di 2 milioni di persone nella regione europea dell’Oms”, dichiara l’Organizzazione mondiale della sanità. “Negli ultimi anni, i progressi verso gli obiettivi dell’Hiv si sono fermati, le risorse si sono ridotte e di conseguenza numerose vite sono a rischio. La disparità di accesso ai servizi sanitari, e in particolare ai servizi per l’Hiv, e il disprezzo per i diritti umani – aggiunge – sono tra i fallimenti che hanno permesso all’HIV di diventare e rimanere una crisi sanitaria globale”.

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Nel nostro paese l’incidenze delle infezioni con tre nuovi casi ogni 100mila residenti è al di sotto della media dell’Unione Europea che è di 4,3 nuovi casi per 100mila. In totale, nel 2021 sono state registrate 1.770 nuove diagnosi, più di frequente nei maschi tra i 30 e i 39 anni d’età e per oltre l’80 per cento dei casi il contagio è avvenuto tramite rapporti sessuali. Il dato però più allarmante, diffuso dal Centro operativo Aids dell’Istituto superiore di sanità, è la tempestività con cui si arriva alla diagnosi: ancora in troppi (63%) scoprono l’infezione quando questa è in fase avanzata. L’emergenza Covid potrebbe in qualche modo aver giocato un ruolo importante nel rallentamento dei contagi, ma anche su un eventuale sottodiagnosi.

La pandemia “ha sicuramente influito sull’andamento della diffusione dell’infezione da Hiv”, sostiene Massimo Galli, già direttore del reparto di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano. “Il periodo Covid, con le restrizioni e il distanziamento sociale, ha infatti ridotto i contatti tra le persone e questo ha diminuito anche le nuove infezioni. La Covid – aggiunge – ha però avuto un ruolo negativo nel ritardare alcune diagnosi, con la rinuncia ai test”. Preoccupato per le diagnosi tardive anche Stefano Vella, docente di salute Globale all’università Cattolica di Roma e presidente della sezione L (ricercatori esperti della materia) del comitato tecnico scientifico per l’Aids del ministero della Salute. “Le diagnosi tardive – dice – non avrebbero ragione di esistere oggi. Mentre i decessi di persone con Aids, seppure stabili con 500 casi l’anno, ci ricordano che è un falso mito l’idea che nei Paesi ricchi non si muore più per questa malattia perché si può accedere ai farmaci specifici”. Il grande problema “restano le diagnosi tardive, perché quando l’infezione viene individuata tardi le conseguenze per il paziente sono peggiori”, specifica Vella.

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